da 'Contro il Progresso' | 'Contro l'Amore' | 'Contro la Democrazia'
Il catalano Soler è uno degli autori più tradotti e rappresentati al mondo.
In questa drammaturgia surreale, nera, ironica, grottesca e disturbante, ma anche piena di pietas, c’è tutta la trasformazione antropologica, mediatica e geopolitica in corso, di cui non ci rendiamo ancora pienamente conto. La sua scrittura, invece, se ne rende conto perché frammentazione e voracità son tradotte, in ciascuno dei tre ‘Contro’, in 7 brevi atti unici apparentemente lontani, sconnessi, variegati, ma in realtà intimamente legati, come gli accadimenti, lontani, sconnessi e variegati delle nostre vite.
Soler crea micro-mondi nei quali si passa, repentinamente ma mai superficialmente, dalla risata alla tragedia, dal paradosso al melodramma.
«Perché, da drammaturgo, si rappresenta un altro drammaturgo? Per consonanza di temi, umori, scarti di scrittura che, nel caso di quella di Soler, ho sentito subito vicina alla mia, tant’è che lo stesso Soler, dopo avere a sua volta letto alcuni dei miei testi, ha manifestato l’intenzione di proporne alcuni in Spagna.
Scrittura vicina ma anche lontana, per l’episodicità a cui non siamo abituati qui in Italia, e perciò sfida ancor più affascinante per un regista.
Inoltre, per confrontarmi con un artista straniero, ma di questa stessa Europa, cuore fibrillante di una deriva di cui noi siamo sia vittime che carnefici.
Ho così deciso di selezionare gli episodi che più mi hanno attratto e non di scegliere un unico ‘Contro’, lavorando con un cast di attori coi quali condivido da tempo il gusto della ricerca inesausta, del paradosso e della verità scenica.
Per motivi intrinseci legati alla natura di questo progetto, in quest’occasione le scelte registiche si sono indirizzate verso un formalismo estremo, una frontalità esasperata in grado di farsi all’improvviso ‘calda’ e stringente solo in alcuni, determinanti, momenti di relazione diretta, cosa che ha permesso un gioco attoriale solo apparentemente distaccato ma invece, a mio modo di vedere, estremamente toccante e raggelante allo stesso tempo.»
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'TRILOGIA DELL'INDIGNAZIONE'
di | Esteve Soler
ridotto - adattato | Giovanni Meola
regia | Giovanni Meola
con | Roberta Astuti - Sara Missaglia - Enrico Ottaviano - Chiara Vitiello
con | Roberta Astuti - Sara Missaglia - Enrico Ottaviano - Chiara Vitiello
consulente al progetto | Armando Rotondi
scenografia | Flaviano Barbarisi
costumi | Marina Mango
ass.te alla regia | Annalisa Miele
aiuto scenografo | Alessandro Francione
scenografia | Flaviano Barbarisi
costumi | Marina Mango
ass.te alla regia | Annalisa Miele
aiuto scenografo | Alessandro Francione
durata | 70'
debutto | Napoli Teatro Festival (2018)
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nuovo debutto | Teatro PICCOLO BELLINI (Napoli) | cartellone 2022-'23 | Aprile 2023
'TRILOGIA DELL'INDIGNAZIONE'
di | Esteve Soler
ridotto - adattato | Giovanni Meola
ridotto - adattato | Giovanni Meola
regia | Giovanni Meola
con | Roberta Astuti - Vincenzo Coppola - Sara Missaglia - Chiara Vitiello
consulente al progetto | Armando Rotondi
scenografia | Flaviano Barbarisi
costumi | Marina Mango
ass.te alla regia | Annalisa Miele
con | Roberta Astuti - Vincenzo Coppola - Sara Missaglia - Chiara Vitiello
consulente al progetto | Armando Rotondi
scenografia | Flaviano Barbarisi
costumi | Marina Mango
ass.te alla regia | Annalisa Miele
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estratti Rassegna Stampa
“Uno strano ‘gioco’, la rappresentazione di un universo orrorifico, ma di un orrore che poggia le sue basi sulla più comune e quotidiana realtà.
“Uno strano ‘gioco’, la rappresentazione di un universo orrorifico, ma di un orrore che poggia le sue basi sulla più comune e quotidiana realtà.
Si potrebbe definire così ‘Trilogia dell’Indignazione’, l’ultimo lavoro di Giovanni Meola, incontro col catalano Esteve Soler autore di una Trilogia tradotta e messa in scena da decine di registi in giro per il mondo. Un racconto, quello di Soler, che rappresenta in 21 episodi (7 per ciascuna opera della ‘Trilogia’) le mostruosità e le sinistre contraddizioni dell’uomo e del mondo contemporanei. Di quegli episodi Meola ne ha scelti sette, incastrati un dopo l’altro con minimi adattamenti di testo. L’operazione di ‘incastro’ è materialmente esposta già dalla scena: al centro dello spazio una struttura di ferro, ideata e realizzata da Flaviano Barbarisi, composta da cinque elementi collegati ad un palo centrale che, spostati a ogni episodio, ne evocano l’ambientazione facendo non solo da sfondo all’azione ma da azione stessa, da personaggio persino, con il quale gli altri quattro interagiscono in maniera intensa e intimissima. Si direbbe, anzi, che quasi solo con la struttura centrale i protagonisti creino una vera connessione. I quattro interpreti – al trio femminile riuscitissimo di ‘Tre. Le Sorelle Prozorov’ si aggiunge Enrico Ottaviano – sono, di episodio in episodio, colleghi di lavoro, amici, una coppia, una famiglia, eppure mai (o quasi) questi personaggi si guardano negli occhi, mai, pur toccandosi, sembrano entrare davvero in contatto. Lo stile recitativo punta al totale antinaturalismo, gli attori, muovendosi da un punto all’altro della struttura, intrecciandosi a essa, salendone o scendendone, dialogano tra loro ma guardando fisso al pubblico. Ad accentuare l’aspetto metateatrale, la presenza di un narratore, interpretato a turno da uno dei quattro, che declama da un lato della scena le didascalie del testo e le azioni dei personaggi. Una voce in campo (con relativo corpo) che assume per ciascun frammento una precisa fisionomia: canto gregoriano, voce spezzata dalle lacrime, onomatopeici “dan-dan-dan” e commento da film thriller, tono cantilenato – di certo senza la versatilità caleidoscopica degli interpreti questo lavoro non avrebbe potuto essere realizzato. Quasi un coro greco che racconta le azioni dei personaggi – che, il più delle volte, essi però non compiono concretamente – ma anche le commenta con l’intonazione della voce, i gesti, gli sguardi.
Ciò che Meola pare aver voluto creare è propriamente un congegno, una costruzione in cui non c’è fluidità drammaturgica, e tuttavia c’è coerenza con leit motiv a volte quasi impercettibili: una parola ripetuta, uno sguardo, un movimento replicato. L’andamento è, volutamente, meccanico, geometrico, come quello degli ingranaggi interni di un orologio. Ed è proprio la geometria a farla da padrone, dalla struttura scenografica, alle forme colorate proiettate sul fondo, fino, soprattutto, ai costumi. Ciascuno di un colore, ma con quadrati di sfumature differenti – come dei mattoncini Lego, ancora costruzioni – i costumi di Marina Mango fanno di questi personaggi qualcosa che sta a metà tra marionette e soldati; apparente paradosso che invece pare perfettamente aderente al senso della drammaturgia di Soler così come della messa in scena di Meola. Le marionette sono mosse dai fili, i soldati marciano e sottostanno a regole ferree: in entrambi i casi non c’è volontà, né libero arbitrio, ma schiavitù a una sovrastruttura rigida che non ammette deviazioni. Qui quella struttura, materialmente incombente al centro della scena è, globalmente, la realtà, l’«oggidì» – per dirlo con Leopardi – quella dell’egemonia del danaro, del profitto personale, del razzismo, dell’immiserimento dei sentimenti, dello svilimento della dignità individuale. Marionette ma, allo stesso tempo, esercito fedele del Generale Mondo – continuo sulla scia delle Operette morali – questi personaggi popolano un universo paradossale nel quale quei disvalori hanno raggiunto le estreme conseguenze, un incubo orrendo nel quale si ammazza come per gioco, l’amore è ridotto a una pillola, ci si sposa e lascia per contratti a tempi determinati, si uccidono figli frutto di coiti interrotti.
Eppure le scelte registiche hanno fatto in modo che, per i personaggi in scena, questo fosse perfettamente normale: non c’è parodia, né caricatura né, tanto meno, farsa; quelle persone orrende vivono l’orrore delle proprie vite come se nulla fosse dichiarando con il più assoluto candore intenti e sentimenti da far accapponare la pelle. Un, a primo acchito, indecifrabile mix di assurdità e quotidianità che lascia interdetti se non spiazzati. E sta proprio qui l’ingranaggio fondamentale, nel corto-circuito che si crea tra le mostruosità rappresentate e la normalità con la quale ciò viene fatto; è qui che lo straniamento incontra la catarsi, che il disorientamento dello stridio lascia il posto alla comprensione del senso estetico – davvero affascinante – dell’operazione ma, soprattutto etico.
Perché in quel corto circuito nasce il germe inquietante del dubbio: e se fossimo noi quei soldati-burattini marcianti, sempre più ciecamente, dritto verso un baratro di inumanità?
Se tutta questa bruttura divenisse un giorno davvero normale? ”
(PAC PaneAcquaCulture | I. Ambrosio)
Ciò che Meola pare aver voluto creare è propriamente un congegno, una costruzione in cui non c’è fluidità drammaturgica, e tuttavia c’è coerenza con leit motiv a volte quasi impercettibili: una parola ripetuta, uno sguardo, un movimento replicato. L’andamento è, volutamente, meccanico, geometrico, come quello degli ingranaggi interni di un orologio. Ed è proprio la geometria a farla da padrone, dalla struttura scenografica, alle forme colorate proiettate sul fondo, fino, soprattutto, ai costumi. Ciascuno di un colore, ma con quadrati di sfumature differenti – come dei mattoncini Lego, ancora costruzioni – i costumi di Marina Mango fanno di questi personaggi qualcosa che sta a metà tra marionette e soldati; apparente paradosso che invece pare perfettamente aderente al senso della drammaturgia di Soler così come della messa in scena di Meola. Le marionette sono mosse dai fili, i soldati marciano e sottostanno a regole ferree: in entrambi i casi non c’è volontà, né libero arbitrio, ma schiavitù a una sovrastruttura rigida che non ammette deviazioni. Qui quella struttura, materialmente incombente al centro della scena è, globalmente, la realtà, l’«oggidì» – per dirlo con Leopardi – quella dell’egemonia del danaro, del profitto personale, del razzismo, dell’immiserimento dei sentimenti, dello svilimento della dignità individuale. Marionette ma, allo stesso tempo, esercito fedele del Generale Mondo – continuo sulla scia delle Operette morali – questi personaggi popolano un universo paradossale nel quale quei disvalori hanno raggiunto le estreme conseguenze, un incubo orrendo nel quale si ammazza come per gioco, l’amore è ridotto a una pillola, ci si sposa e lascia per contratti a tempi determinati, si uccidono figli frutto di coiti interrotti.
Eppure le scelte registiche hanno fatto in modo che, per i personaggi in scena, questo fosse perfettamente normale: non c’è parodia, né caricatura né, tanto meno, farsa; quelle persone orrende vivono l’orrore delle proprie vite come se nulla fosse dichiarando con il più assoluto candore intenti e sentimenti da far accapponare la pelle. Un, a primo acchito, indecifrabile mix di assurdità e quotidianità che lascia interdetti se non spiazzati. E sta proprio qui l’ingranaggio fondamentale, nel corto-circuito che si crea tra le mostruosità rappresentate e la normalità con la quale ciò viene fatto; è qui che lo straniamento incontra la catarsi, che il disorientamento dello stridio lascia il posto alla comprensione del senso estetico – davvero affascinante – dell’operazione ma, soprattutto etico.
Perché in quel corto circuito nasce il germe inquietante del dubbio: e se fossimo noi quei soldati-burattini marcianti, sempre più ciecamente, dritto verso un baratro di inumanità?
Se tutta questa bruttura divenisse un giorno davvero normale? ”
(PAC PaneAcquaCulture | I. Ambrosio)
“Testi già apprezzati, tradotti e rappresentati in molteplici paesi, quelli della “Trilogia dell’Indignazione”; riescono, in questo singolare adattamento, a spingere il pubblico, inconscio, verso un processo di indignazione che si realizza automatico man mano che l’assurdità del testo si snocciola e lascia spazio alla percezione che quanto di più curioso stiamo assistendo non è mai davvero irrealizzabile; basta voltarsi indietro, verso la storia, per ricordare che gli orrori che ci paiono più inconcepibili li abbiamo compiuti senza neanche concepirli. Le storie presentate nella ‘Trilogia’ sono lontane da ogni nostra convenzione, come il contesto nel quale si svolgono, dallo spazio ai costumi, dallo stile degli attori ai loro movimenti. La scenografia ricorda una gabbia: una costruzione movibile in ferro, composta di cinque membra differenti, collegate ad un palo, che vengono con facilità spostate dagli attori e creano ambienti simbolicamente differenti a seconda delle esigenze di scena. È una scenografia viva, partecipe, che ospita e sostiene la rappresentazione ma ne bracca le componenti umane e sensibili. Gli attori si arrampicano in questa danza di veloci variazioni di ruoli, testando fra loro diverse posizioni, passando dalla situazione di coppia a quella di padroni e dipendenti, o genitori e figli, ma sempre presentati e seguiti dall’originale voce esterna (ma in campo) che argomenta la vicenda durante il suo svolgersi tinteggiandola di una personalità precisa rispetto all’atteggiamento di naturalezza con il quale gli interpreti provano a mostrare consone le affermazioni più inumane. La specificità della voce in campo, che in ogni scena è di un attore differente, sta proprio nel carattere che le si affida a seconda della vicenda: dal canto gregoriano al lamentoso passando per la cantilena. Per tutti gli attori i toni di voce, lo stile, si adeguano agli episodi raccontati, variano, si diversificano, ma confluiscono tutti in un punto: l’irrealtà. La semplicità con cui si espongono pensieri lontani dai valori minimi dell’essere e saper essere umano quasi stordisce lo spettatore; è impossibile non avvertirne le sottili venature di inumano. I costumi stessi completano il quadro di una stilizzazione tale da perdere il contatto con il reale. Costumi che spersonalizzano: ogni attore indossa un’informe tuta di un diverso colore nelle sue sfumature, intagliate in forma geometriche; l’idea di un mattoncino, di una tesserina di un puzzle, di un ingranaggio di un macchinario che funziona e deve funzionare perfettamente solo nel complesso dell’incastro di tutte le obbedienti componenti, è presto ottenuto.
Nei sette episodi scelti da Meola, a fronte dei ventuno dell’intera trilogia di Soler, la follia che li attraversa è venata di un assurdo ma palpabile cinismo. Il pubblico assiste all’irrealtà dell’impossibile, o di un reale ipotizzabile, che precipita rocambolescamente in ciò che avremmo sempre pensato amorale, antietico, disumano.”
(La Cooltura | L. Laezza)
Dietro le quinte